Era mattina presto, ero infreddolita, avevo dormito tutta la notte insieme ad altri compagni nel bagagliaio di un autobus. E’ da allora che soffro di claustrofobia. Il sacco a pelo e lo zaino lo avevo lasciato nel campo di accoglienza in cui saremmo dovuti andare a dormire.
Alla fine ci siamo rifugiati nelle colline intorno Genova.
Fummo svegliati dalla polizia.
La sera prima eravamo scappati dall’inferno di Genova. I cellulari non funzionavano ed ero stata tutto il giorno con alcuni compagni al presidio di piazza Dante in cui si sarebbe dovuto ritrovare il mondo dell’associazionismo laico.
Sarebbero dovuti arrivare tutti i nostri compagni, venivano dal campeggio studentesco dell’Uds e dell’Udu. Ma non arrivarono.
Tutto il giorno si rincorrevano voci di uno, due, tre morti, si diceva di un ragazzo spagnolo o tedesco. Ci riferivano che fuori c’era la devastazione e la guerra: la polizia aveva manganellato anche i manifestanti delle rete Lilliput in piazza Manin, senza alcun motivo.
Verso sera tornammo a Piazzale Kennedy, scendendo vidi in lontananza le fiamme che avvolgevano una banca e accanto alle fiamme un gruppo folto di ragazzi con la maglietta giallo canarino. Ci videro e ci vennero incontro.
Erano loro, i miei compagni.
Alessandro mi abbracciò, in lacrime. Avevano passato la giornata per le strade di Genova cercando vie di fuga dai manganelli della Polizia e dalle molotov dei black bloc. Un inferno.
A piazzale Kennedy, asserragliati, c’era il quartier generale del Genoa Social Forum.
Scoprimmo di Carlo, fu improvvisata una assemblea. Rabbia, disperazione, paura.
Decidemmo di andar via, la città non era sicura e con noi c’erano molti minorenni. Incontrammo Giuliano Pisapia, allora parlamentare, che ci scortò fino agli autobus. Quel giorno ci salvò la vita. Gli autobus ci portarono a dormire fuori Genova.
La mattina dopo iniziava il grande corteo. I minorenni tornarono al campeggio studentesco in autobus, nonostante le lacrime di chi voleva restare.
Gli altri al corteo di nuovo con le magliette giallo canarino. Facemmo al volo un nuovo striscione, c’era scritta una sola parola: Vergogna!
Eravamo nello spezzone di metà corteo, prima della rete lilliput. Il corteo fu spezzato almeno in due punti dalle cariche della polizia, eravo nel mezzo. Avanti a noi vedevamo il fumo nero e sentivamo l’odore insopportabile dei lacrimogeni. Dietro di noi i manifestanti furono schiacciati sulla scogliera e caricati più volte.
Ne uscimmo incredibilmente illesi.
Arrivati a destinazione i miei compagni partirono subito per il campeggio studentesco, solo io rimasi a Genova, dovevo intervenire all’assemblea finale. Cercai un ricovero per la notte, ritrovai un compagno di Mani Tese disponibile ad ospitarmi (e fortunatamente non andai come tanti altri alla Diaz).
In piena notte mi svegliarono: i ragazzi di Mani Tese avevano ricevuto una chiamata e ascoltavano la diretta radio dalla Diaz. La polizia aveva assaltato la scuola e stava manganellando i ragazzi che dormivano, senza pietà.
La mattina presto zaino in spalla decisi di scappare, non me la sentivo di restare ancora a Genova, avevo paura. Presi un autobus di linea ma dopo poco dovetti scendere per un allarme bomba.
Ogni volta che vedevo la polizia scappavo come fossi stata una fuggiasca. La stazione Principe era fuori servizio, arrivai alla stazione di Brignole, finalmente in treno, tutto era finito. Direzione campeggio studentesco.
Doveva essere la mia prima grande manifestazione e mi ritrovai in campo di guerra.
Eppure i giorni che avevano preceduto il 20 luglio erano stati bellissimi. La manifestazione dei migranti e il concerto di Manu Chao. Le nostre voci dal “Public Forum” echeggiavano in una atmosfera strana, insolitamente silenziosa, sospesa, eterna. Il mondo sembrava nostro.
Riconversione ambientale, migranti, pace, disarmo, acqua, no-ogm, partecipazione e democrazia, cancella il debito, saperi, diritti globali, impronta ecologica e sociale. Qualcuno disse in un forum: “Questa è la prima generazione che non chiede nulla per se stessa”.
E’ vero, non c’era nulla di rivendicativo per noi, chiedevamo solo l’altro mondo possibile.
La nostra era una generazione che si era potuta permettere il lusso di sognare, in maniera del tutto innocente, ma fu svegliata a suon di manganelli.
Quello fu il nostro vero primo rapporto con il potere e la sua violenza, ed eravamo soli, senza protezioni, senza adulti, senza riferimenti, senza partiti e sindacato.
Da allora abbiamo continuato a sognare e costruire l’altro mondo possibile, ma abbiamo sempre tenuto a debita distanza il potere, in tutte le sue forme più o meno istituzionalizzate.
Abbiamo scoperto poco dopo cosa fosse la precarietà, ma non abbiamo rinunciato ad inseguire le nostre aspirazioni, con competenza e creatività: abbiamo costruito il nostro mondo possibile con i gruppi di acquisto solidale, la cooperazione sociale e internazionale, le campagne, il commercio equo, le reti, i coworking, i progetti di ricerca, l’attivismo quotidiano. Alcuni di noi (non molti) si sono impegnati nel sindacato, ancora meno nei partiti e nelle istituzioni. Ma nessuno ha rinunciato all’impegno politico e sociale.
Abbiamo continuato ad essere una generazione che “cammina domandando”, lontana dal potere: talvolta, anche per questo, abbiamo avuto l’impressione di aver fallito, di non aver cambiato nulla.
Ma avevamo ragione noi sulle ingiustizie che governano questo mondo, allora come oggi. E un pezzo di quel mondo possibile, con la nostra autonoma iniziativa, lo abbiamo pure costruito.
Allora avevo 23 anni, proprio come Carlo. Sono passati 13 anni, oggi ne ho 36, quanti ne avrebbe avuti lui.
Mi chiedo cosa avrebbe fatto Carlo in questi anni, con il padre sindacalista difficilmente lo avrei incontrato nella Cgil; studiava storia, magari sarebbe rimasto all’università e si sarebbe battuto per diventare un ricercatore.
Di sicuro era e sarebbe stato uno di noi. E magari, se quel colpo di pistola non avesso spezzato brutalmente la sua vita, la nostra generazione si sarebbe sentita un po’ meno clandestina.
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