Tratto dal settimanale Left (11/10/2014)
Versione integrale limitata per motivi di spazio.
“Non ci sono più i padroni!”: lo abbiamo sentito ripetere come un mantra da chi suppone che il conflitto capitale/lavoro sia oramai un pezzo di archeologia.
Purtroppo chi vive e conosce il mondo del lavoro, o quantomeno chi non professa falsa coscienza, sa che non è così.
Nel mercato globale cambiano gli attori, i contesti, i confini geografici, ma il conflitto capitale/lavoro è presente e purtroppo sempre più sbilanciato a favore dell’impresa: l’instabilità di questo mercato privo di regole scarica, infatti, costi e rischi sul lavoro, per lo più nei suoi segmenti periferici.
Ad esempio la domanda di flessibilità totale si traduce oggi nelle fabbriche in aumenti improvvisi dei carichi di lavoro, continue imposizioni sull’orario, turni massacranti. Se in altre stagioni il lavoro operaio aveva riconquistato un potere di autodeterminazione sulla propria esistenza, oggi non è più scontato e il governo dell’organizzazione del lavoro è sempre meno condiviso tra lavoratori e impresa, lasciando il passo a modelli autoritari.
Quanto contenuto nel Jobs Act è esattamente funzionale ad aumentare il potere di ricatto delle imprese senza mediazioni possibili. Solo così possiamo comprendere la volontà di cancellare gli articoli dello Statuto dei Lavoratori inerenti il divieto di de-mansionamento, il controllo a distanza, il licenziamento senza giusta causa.
Questo modello di subordinazione e schiavitù è già stato paradossalmente testato dai lavoratori precari. Vale per un lavoratore delle pulizie che ad ogni cambio di appalto rischia di perdere ore di lavoro, mansione, stipendio; come per un collaboratore a progetto o per una partita iva il cui compenso e contratto variano a seconda degli interessi del committente.
Il compito della politica non è ignorare la divergenza di interessi e ratificare i rapporti di forza, ma favorire un equilibrio sociale più avanzato rispetto ai mutamenti del lavoro e della produzione.
Un nuovo compromesso sociale dovrebbe piuttosto redistribuire rischi e poteri, puntando sul binomio autonomia e responsabilità e proporre un rinnovato Statuto dei Diritti che parli di formazione, professionalità, autonomia, mobilità, proprio come aveva suggerito Bruno Trentin. Esattamente il contrario del de-mansionamento e del controllo a distanza che umiliano professionalità, competenze, autonomia.
Un nuovo compromesso dovrebbe necessariamente estendere le tutele sociali e il sostegno al reddito a tutti: non quale risarcimento per le libertà negate – fino ad arrivare all’assurdo di un Jobs Act che condiziona le tutele all’anzianità – ma quale strumento di attivazione e protezione universale.
Certamente il sindacato è stato particolarmente timido nell’immaginare e perseguire nuove sfide sul terreno dell’innovazione, perdendo così parte della rappresentanza e del potere negoziale, sul quale Renzi, oggi, vuole mettere la parola fine. Non a caso si propone di introdurre un salario minimo qualche strumento per superare definitivamente la contrattazione nazionale e quindi il livello di maggior forza negoziale del sindacato.
La posta in gioco è molto alta e tutt’altro che ascrivibile ad un macchiettistico scontro tra conservatori e innovatori, tra vecchie burocrazie e giovani dinamici, piuttosto riguarda il potere dei lavoratori e l’esercizio della libertà sul lavoro.
Ma, a dispetto di quanto viene rappresentato, rimango convinta che, prima o poi, saranno proprio le nuove generazioni a dimostrare quanto non siano più disposte a rinunciare alla propria autonomia, alla propria libertà, alla propria conoscenza.
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